Le pale d'altare:
San Vincenzo de' Paoli e San Camillo de Lellis
Le imponenti pale erano originariamente collocate ai lati dell’altare in maniera da fronteggiare i fedeli. Rispecchiano l’architettura neogotica della chiesa sviluppandosi drammaticamente in altezza per concludersi ad arco ogivale.
Dalle analisi chimiche condotte sulle pitture murali e sulle tele in occasione della mostra genovese del 1998 risulta che Grimaldi utilizza preziose tovaglie di Fiandra come supporto per questi dipinti. E’ soprattutto grazie ai costosi pigmenti e all’insolita base utilizzati che entrambe le pale hanno perfettamente resistito alle ingiurie del tempo e al degrado strutturale, mantenendo le originali tonalità accese e la superficie pittorica intatta (C. Schinaia, Gino Grimaldi, un’artista al manicomio, in Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa, Mazzotta, Milano 1998).
Le due opere rappresentano la vita e le gesta dei fondatori degli Ordini caritatevoli attivi all’interno dell’Ospedale Psichiatrico cogoletese. La decisione sui soggetti da raffigurare è probabilmente imposta dalle stesse autorità che accordano a Grimaldi il permesso di dipingere. L’abilità dell’artista risiede nell’aver saputo mediare la perentorietà della commissione ricevuta con le proprie necessità estetiche ed espressive; mantenendo come perno stabile i soggetti di partenza il pittore gli costruisce attorno una giostra figurativa che non tralascia ossessioni, temi ri-correnti e interpretazioni personali.
San Vincenzo de’ Paoli fu un sacerdote francese vissuto fra il 1581 e il 1660, ricordato come fondatore e ispiratore di svariate congregazioni cattoliche votate al culto dell’umiltà e della compassione per nullatenenti e sciagurati.
L’immagine che ne dà Grimaldi rispecchia in parte la rappresentazione canonica, essendo piuttosto frequente, soprattutto nell’iconografia del XIX secolo, vedere San Vincenzo presentato “con un bambino in braccio e altri due ragazzetti che gli si aggrappano alla sottana” (J. M. Roman, San Vincenzo de’ Paoli: biografia, Jaca Book, Milano, 1996). Per la rappresentazione degli episodi della vita del religioso viene utilizzata una versione dei fatti personale ed alle volte improvvisata dallo stesso artista. Se di alcuni elementi è facile dedurne l’origine e il significato, di altri è possibile solo formulare delle ipotesi.
Nato in una famiglia di umili origini contadine a Pouy, nelle Lande della Guascogna, San Vincenzo de’ Paoli lascia giovane la sua terra di nascita per intraprendere la carriera ecclesiastica. Dal 1608 si stabilisce a Parigi, ottenendo un impiego come Cappellano al Palazzo della Regina Margherita, prima moglie di Enrico IV. I biografi del santo sottolineano la presenza di “una segreta simpatia tra il corso della storia di Francia e la parabola vitale di San Vincenzo de’ Paoli. Ambedue iniziano il loro sviluppo ascensionale nello stesso periodo e ambedue raggiungono la pienezza negli stessi anni” (J. M. Roman,1996), ed è forse questa interpretazione dei fatti che dà origine all’episodio rappresentato nella parte superiore della pala: Luigi XIV, nel pieno del suo splendore e abbigliato come lo immortala l’iconografia tipica della celebrazione del Re Sole, sembra colto in un cerimonioso tributo che si sta svolgendo all’interno di un loggiato aperto su una scena di battaglia.
Tramite la famiglia Gondi, presso cui passa dalla mansione di cappellano a quella di direttore spirituale, Vincenzo de Paoli entra in contatto con la cerchia reale che a quel tempo era retta da Luigi XIII. Anna d’Austria, consorte del sovrano, detiene la guida dello stato fino a quando il figlio Luigi XIV non diventa maggiorenne dieci anni dopo la morte del padre avvenuta nel 1643, e inserisce Vincenzo nel consiglio di coscienza della corte francese affiancandolo ad un’altra personalità inscindibile dalla storia francese: il cardinale Mazzarino che prese le veci del suo protettore e maestro, il cardinale Richelieu. Quando Luigi XIV nel 1651 acquisisce pieni poteri, Vincenzo viene dimesso dall’incarico a corte e comincia a dedicarsi quasi esclusivamente alle fondazione e gestione di varie imprese caritatevoli.
Come indicato dal titolo completo dell’opera riportato nel Catalogo Generale, gli eventi rappresentati in San Vincenzo de’ Paoli alla Salpêtrière fanno riferimento alle vicende che vedono il sovrano francese e il religioso impegnati nella fondazione dell’Ospedale della Salpêtrière.
Negli ultimi anni di vita, San Vincenzo entra in discussione con la congregazione da lui istituita delle Dame della Carità riguardo la necessità di dotare la città di Parigi di un nuovo istituto dove poter accogliere l’enorme quantità di poveri e mendicanti. Viene a questo scopo, e grazie all’intercessione di una nobildonna impegnatasi nell’impresa, rilevato l’antico edificio della Salpêtrière, sede di una polveriera abbandonata. A lavori di ristrutturazione avviati, un editto reale del 1656 interrompe le operazioni per assumere in proprio il progetto di un “Grande Ospedale Ge-nerale dei poveri”.
Le fonti riportano il sollievo di San Vincenzo nel doversi ritirare dall’impresa; l’uomo di chiesa non condivide infatti le intenzioni regali che vedono i bisognosi costretti ad una forzata detenzione all’interno della Salpêtrière al fine di ripulire il volto pubblico della capitale francese. In seguito alla fine dei lavori e l’apertura dell’ospizio, i sacerdoti della Missione da lui fondata vengono nominati cappellani della nuova istituzione per volere governativo. Personalmente San Vincenzo rifiuta di incaricarsi definitivamente dell’assistenza spirituale dell’ospedale, ma nell’opinione dei poveri il santo viene identificato come responsabile della paternità dell’opera.
Nonostante la storia di San Vincenzo e quella del Re Sole si siano intrecciate in varie occasioni, la raffigurazione di un episodio bellico sullo sfondo della corte regale nella pala di Grimaldi rimane enigmatico. Non si hanno abbastanza elementi per poter fare risalire gli eventi a un conflitto specifico nella storia francese, ma è possibile ipotizzare che il paesaggio sconvolto dai fuochi d’artiglieria rappresenti un’allegoria della guerra. San Vincenzo viene spesso implicato nei conflitti bellici che in quegli anni colpiscono la Francia e le sue frontiere, come per esempio quando durante guerra dei Trent’anni il religioso organizza “raccolte di fondi, modi di distribuirli, informazione sui bisogni e servizi di collegamento” per quei luoghi e per le popolazioni sconvolte dalla tragedia della guerra (J. M. Roman,1996).
Al di là degli episodi raffigurati nella parte terminale della pala sopra menzionati, la logica che spinge il pittore a raffigurare i personaggi che circondano la figura del santo si fa più lineare. In un movimento discendente che parte dalle alte sfere della nobiltà e del clero arrivando ai soggetti più bisognosi, le figure rappresentate consentono una lettura simbolica della vita di San Vincenzo.
Subito attorno alle spalle del santo sono posizionate le personalità religiose che lo affiancano in imprese ed episodi della sua vita. Fra quelle identificabili, si riconoscono il cardinale Mazzarino e l’Arcivescovo di Parigi.
Dalla vita in giù del protagonista ha inizio la sezione dedicata agli umili e il fatto che alcuni dei giovani vengono abbigliati con sbuffi e ori sembra semplicemente essere un’esigenza decorativa che permette un’elegante digressione. Nelle religiose si possono riconoscere Luisa de Marillac (unica figura beatificata oltre al santo a cui è concesso di figurare con l’aureola) che fu braccio destro di Vincenzo nella formazione della congregazione femminile delle Figlie della Carità, e, appena più in basso, una delle sorelle della congregazione che indossa il tipico abito grigio della Compagnia con ampio copricapo bianco, la cornetta.
Quest’area del dipinto può venire considerata come la più allegorica e condensa decenni di attività benefiche svolte dal protagonista della pale: la figura di spalle con le catene ai polsi sta probabilmente ad indicare il periodo della vita del santo durante il quale si adopera per liberare gli schiavi europei catturati per mare da navi straniere e poi trasportati e venduti in Nord Africa, ipotesi supportata dalla presenza di quello che potrebbe essere il proprietario-compratore di colore rappresentato dietro al giovane. L’assistenza ai bambini fu un’altra delle azioni a cui si fa costante riferimento nelle agiografie del santo; i visi angelici di queste figure incarnano la purezza dell’opera vincenziana e la loro presenza in primo piano permea l’intera pala di una religiosità intensa.
All’interno di questo perfetto sistema di compenetrazione fra realtà, visioni e allegorie non mancano presenze sinistre, come il giullare in alto a sinistra o, appena più sotto, lo storpio piegato che mostrando il fondoschiena guarda torvo lo spettatore.
In entrambe le pale la parte superiore inquadrata dalla terminazione ogivale, è l’area del dipinto in cui Grimaldi si concede maggiore libertà figurativa. I personaggi si fanno più minuti e alla selva umana si aggiungono luoghi ed episodi non sempre uniti da una continuità narrativa e logica.
In particolare nella pala di San Camillo de Lellis il racconto nello spazio superiore si fa ostico e spesso l’interpretazione può procedere solo attraverso supposizioni e teorie. Risulta problematico di per sé tentare di ricondurre la lettura degli episodi rappresentati a una struttura logica limitante se si considera il fatto che l’intenzione e le motivazioni dell’autore hanno meno a che fare con la ragione e più con necessità emotive ed espressive.
Per far luce sulla raffigurazione è lecito iniziare dal protagonista della pala, San Camillo, fondatore dell’Ordine dei Ministri degli Infermi o Camilliani.
La compagnia viene costituita a Roma e riceve il riconoscimento papale nel 1568. Nei decenni successivi a quella data, i suoi ministri espandono rapidamente la propria influenza e vengono chiamati a compiere le loro opere nelle maggiori città italiane. L’emblema di riconoscimento diventa una croce rossa su campo oro circondata da raggi a cui in seguito si sovrappone la corona: Grimaldi ne dà una fedele rappresentazione nell’angolo superiore del dipinto esattamente sotto la congiunzione dell’arco archiacuto, aggiungendo al simbolo canonico due angeli fluttuanti nell’atto di reggerlo.
Sullo sfondo dietro lo stemma una fuga prospettica di palazzi cittadini determina una diagonale che conduce lo sguardo verso un arco di trionfo in stile romano. Questo scorcio urbano ha del misterioso non potendo essere identificato con un luogo reale, nonostante molti vi intravedono gli edifici medievali di Genova che si affacciano su Piazza Caricamento e sul Porto Antico. La lettura della raffigurazione si complica quando si prendono in considerazione altri due elementi che sono compresi nella scena: l’arco di trionfo, riconducibile alla citta di Roma, e lo stemma araldico -il biscione nell’atto di divorare un uomo- della famiglia milanese dei Visconti. Una motivazione plausibile, alla luce della vita e delle opere del santo, è la volontà di rappresentare simbolicamente alcune delle città che giocano un’importanza fondamentale nella storia dell’ordine fondato da San Camillo, il quale partito da Roma espande la sua opera in diverse grandi città italiane, fra le quali Genova e Milano hanno un ruolo centrale. Significativo è inoltre il fatto che il capoluogo lombardo e quello ligure tracciano tappe essenziali nella storia del pittore stesso.
Alla sinistra di questi elementi architettonici e in posizione leggermente ribassata si compone un’affollata congiunzione di personaggi e simboli. Questa è la zona che Grimaldi predispone alla rappresentazione di se stesso: con un magnifico autoritratto dal volto severo si raffigura in veste nobiliare, il candido colletto merlettato, la mano ingioiellata da pietre preziose e la croce d’oro con richiami araldici-cavallereschi che gli pende fra le dita. Nell’altra mano impugna tre pennelli con le setole intrise di tre diversi colori; sul manico del rosso firma Grimaldi, su quello giallo-oro indica la data dell’esecuzione della pala (1935) e il nome Gino, sull’azzurro scrive AEQUES e minuscolo in punta S. Gral. Appena sotto i pennelli sbocciano tre rose, fiore che oltre a rimandare nell’immediato alla confraternita dei Rosa-Croce (https://it.wikipedia.org/wiki/Rosacroce), incarna diversi significati simbolici, molti dei quali legati al sangue di Cristo versato per la redenzione dell’umanità. Il pittore-cavaliere del Graal avvolge con la sua imponente figura un inquietante omuncolo dall’epidermide emaciata. Un raggio luminoso gli incide il volto dividendolo verticalmente a metà: le due facce, quasi simmetriche, che si formano sono diversificate solo dallo sguardo, che da una parte si spalanca per fissare il pubblico e dall’altra si serra in una lacrima.
Questa coppia di personaggi rimanda all’idea di un doppio autoritratto, di una separazione del sé che dimostra tutto il dolore, la segregazione e i pregiudizi che il pittore subisce negli anni: Grimaldi dona al nobiluomo i suoi realistici tratti fisici identificandosi nelle vesti del decoroso cavaliere, ma a questa immagine ingloba, per mezzo di un benevolente abbraccio, la visione che percepisce come cucitagli addosso dagli altri. Questa versione mortificata di sé stesso non viene scacciata o negata, ma accolta dal gesto amorevole del proprio autoritratto.
La figura del santo è posta in maniera decentrata rispetto all’intera composizione e viene colta nell’atto di trasportare tra le braccia un giovane dalle sembianze androgine. I capelli biondi fluenti, le palpebre languidamente serrate, la bocca perfetta di un rosso accesso, il polso chiuso in una straordinario bracciale turchese ornato da geroglifici egizi, rende il personaggio una presenza misteriosa e perturbante.
Questa sembra essere una straordinaria licenza che il pittore si concede per reinterpretare le raffigurazioni canoniche del santo, il quale, come viene tramandato nelle agiografie, “sulle spalle robuste della sua inesauribile carità, avrebbe trasportato innumerevoli infermi e deboli creature, dalle rive del dolore a quelle dell’infinito amore” (Gesualda dello Spirito Santo, San Camillo de Lellis: l’angelo degli infermi, Istituto missionario pia società San Paolo, Roma, 1942).
Lo sguardo intenso di San Camillo si posa sul volto di questa figura dalla sessualità incerta che è fatto brillare tramite un originale gioco di bagliori semitrasparenti che scompongono la superficie del dipinto; il viso dell’assistito viene incorniciato in un triangolo di luce che ha il suo vertice dell’angolo acuto che conclude la facciata a salienti della chiesa del manicomio riprodotta in un modello sorretto da un angelo, consuetudine iconografica sviluppatasi nell’arte sacra medievale che vede il luogo di culto per il quale l’opera è destinata comparire in miniatura nella raffigurazione stessa.
Al di sotto di questa figura si apre un intrico di personaggi la cui ragion d’essere oscilla fra possibili riferimenti alla vita del santo e visioni oniriche scaturite dalla fantasia del pittore.
Per esempio, i bambini che rispettivamente sono inseriti sul lato estremo destro e sinistro della pala, abbigliati con la tunica nera corredata dalla croce rossa sul petto tipica dell’ordine camilliano, potrebbero essere fatti risalire a un episodio riguardante la nascita prodigiosa di Camillo ricordato nelle fonti biografiche: la madre del santo, rimasta incinta ormai in età avanzata, “prima di dare alla luce il bambino, ebbe dei sogni profetici. Lo sognò con il petto fregiato da una croce rossa, seguito da altri fanciulletti, tutti col petto egualmente fregiato.”(Gesualda dello Spirito Santo, 1942).
Nel dipinto presenze divine si mischiano con personaggi terreni ma appartenenti a inafferrabili fantasie e il culmine della libertà espressiva viene raggiunto nella parte bassa della tela dove alcune delle figure sembrano essere intente ad inscenare un cerimoniale religioso-eucaristico che ha dell’esoterico. Nel pieno dell’azione compare un’inaspettata sovraccarica simbolica che lascia trapelare secoli di tradizioni, dottrine e leggende cristiane. La coppa che la donna al centro di questa composizione si porta alla bocca (conturbante rappresentazione della transustanziazione del sangue di Cristo in atto con un volto che prende forma nel liquido rossastro) è identificabile con l’oggetto delle ricerche della leggenda del Sacro Graal, in particolare se letta in rapporto al cuore umano che la giovane regge nell’altra mano.
Spesso, soprattutto nelle tradizioni più antiche, la metafora del Sacro Graal (la coppa che conserva il sangue del messia) è associato a quella del cuore di Cristo. Il cuore è il luogo della vita che si elabora continuamente attraverso il contenimento del sangue e la spinta al suo flusso e già gli antichi egizi nei loro geroglifici raffiguravano l’immagine di questo organo con l’emblema del vaso (J. Chevalier (a cura di), Dizionario dei simboli : miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, Rizzoli, Milano, 1986). La croce in legno completa la simbologia della passione di Cristo: nelle leggende che ne fanno cenno, il Graal compare per la seconda volta, successivamente all’episodio dell’Ultima Cena, quando Giuseppe d’Arimatea lo utilizza per raccogliere il sangue del Salvatore dal corpo inchiodato alla croce.
Particolare degno d’attenzione è poi la trovata dell’artista di agghindare la stessa donna con due ciliegie pendenti a mo’ di orecchino. La levità di questa soluzione, che quasi ricorda l’atto infantile di agghindarsi con orpelli improvvisati, dona nuova grazia al frutto identificato anch’esso come simbolo della passione di Cristo.
Appena al di sotto di questa scena, si trova uno dei personaggi più enigmatici e affascinanti di tutta la pala. Il bel giovane dalle sembianze vagamente femminili potrebbe essere infatti una raffigurazione della figura mitologica dell’androgino: “L’ideale del corpo umano risulta dalla fusione del fanciullo e dalla fanciulla nel loro periodo floreale; ecco la formula luminosa e precisa dell’estetica” (J. Péladan, L’androgyne (estratto da), in L. Falqui, Ascoltare l’incenso : confraternite di pittori nell’Ottocento: Nazareni, Preraffaelliti, Rosa + Croce, Nabis, Alinea, Firenze, 1985). Questo stralcio ed alcune delle idee che sembrano informare elementi ricorrenti nella produzione del pittore provengono dalle dottrine professate dallo scrittore francese Joséphin Péladan https://it.wikipedia.org/wiki/Joséphin_Péladan (1858-1918), in particolare nel suo più celebre romanzo L’androgyne. Péladan, avendo maturato un interesse per l’occulto, fonda in francia nel 1890 la setta della Rosa-Croce Cattolica del Tempio e del Graal. Questo gruppo vanta fra i suoi sostenitori personalità artistiche di spicco nell’ambiente simbolista di fine secolo parigino e la sua influenza raggiunge l’Italia, come si scopre da alcuni articoli dedicati al pensatore francese pubblicati sulla stessa rivista Emporium con la quale Grimaldi ha particolare familiarità.
Dal brano citato di Péladan si colgono alcuni concetti di rilievo in rapporto ad elementi ricorrenti nel sistema simbolico di Grimaldi. Péladan giustifica la rappresentazione dell’androgino come spinta da leggi superiori che “agiscono all’insaputa dell’artista” e cita numerosi esempi: “Carpeaux non ha mai saputo perché il suo genio della danza era androgino […]; il Saint Symphorien di Ingres è bello come una donna e l’angelo che lotta con Giacobbe e gli altri che si accostano a Eliodoro mostrano la stessa via in Delacroix. L’androgino attraversa l’opera di Gustave Moreau e dei Pre-raffaelliti. In Rossetti e Burne-Jones, in conseguenza del tradizionalismo e anche per il carattere inglese, lo si ritrova.”(J. Péladan, L’androgyne (estratto da), in L. Falqui, 1985).
Se si osserva il cartiglio che il giovane tiene fra le mani, vi si legge il monogramma dell’autore con le due G che specularmene si compenetrano. Esso è racchiuso da due elementi carichi di si-gnificati metafisici: lo scorpione e la sfinge.
Proprio la sfinge è l’essere indicato da Péladan come primo soggetto artistico nella storia della ri-produzione delle immagini e incarnazione simbolica del concetto di androginia: “L’arte comincia con un mostro: Androsfinge, dice l’archeologo. Ma ha le mammelle! Ginosfinge? Ma ha un corpo di leone e sotto il mento il tasseau geroglifico della barba e del principio maschile.[…] testa di uomo, mammelle di donna, corpo di leone. Ciò si legge correttamente, pensiero, passionalità, istintività”. (J. Péladan, L’androgyne (estratto da), in L. Falqui, 1985)
La divinazione dell’essere androgino rientra nel filone mistico-esoterico della cultura decadente di fine Ottocento, per la quale Leonardo Da Vinci è considerato l’artista per eccellenza e la sua opera l’ incarnazione perfetta del concetto di androginia. Da questa dottrina sembrano riaffiorare i deliri di Grimaldi, che, appena internato nel manicomio di San Servolo a Venezia, vagheggia una reli-giosità panteistica; dichiarandosi buddista e sostenendo che l’evoluzione in atto l’aveva condotto al divenire Rubens, sostiene che la vera perfezione, meta dovuta al termine delle reincarnazioni, sarebbe avvenuta nel trasformarsi in Leonardo Da Vinci.
Tornando al cartiglio con il monogramma, posizionato al di sopra di una congelata natura morta, l’indole mortifera dello scorpione, egregiamente simbolizzata da un punto rosso sangue all’estremità dell’aculeo posteriore, introduce un ulteriore elemento della composizione. Al di sot-to dell’animale, la scritta Cave (attenzione-abbi paura) ribadisce il presagio di pericolo e in pratica rende tutta la pergamena una sorta di memento mori.
Ai piedi del giovane, un altro particolare stravagante invoca l’attenzione del pubblico: le cavallette -indubbia immagine di flagello, dall’Esodo all’Apocalisse- vengono associate a due dadi -la sorte o il caso-. Il sette, somma dei numeri che i dadi presentano, è associato con innumerevoli rimandi simbolici con antiche radici in varie dottrine religiose e filosofiche ebraico-cristiane. Sette sono in-fatti i giorni della settimana e così della Genesi, i pianeti in astrologia e gli stadi cosmici per rag-giungere i cieli (J. Chevalier (a cura di), 1986) e conseguentemente questo numero racchiude in sé la forma e il sistema dell’universo. Per quanto irrisolvibile, la metafora che Grimaldi inscena at-traverso l’unione di questi elementi sembra quasi avere intenti cosmologici in una personale vi-sione del meccanismo che regola il sistema universale nella triade sistema/ casualità/ fine.
Dal punto di vista esecutivo entrambe le pale rappresentano uno dei più alti esiti dell’intera pro-duzione artistica del pittore.
Si parla di horror vacui per definire una tendenza alla rappresentazione sovraccarica di elementi dove l’occhio dello spettatore non può trovare tregua nella concitazione di immagini che riempio-no ogni spazio disponibile. In Grimaldi l’horror vacui non costituisce solo il riempimento fobico di ogni anfratto. La volontà di significazione e di espressione sembra sempre aprire sistemi di pen-siero che vanno al di là del puramente decorativo.
Le vite dei santi rappresentati, esempi di bontà, di amore verso i diversi e gli sventurati, di religio-sità intensa vissuta a livello quasi mistico, vengono condensate in tutta la loro intensità in pochi metri di superficie pittorica. Il racconto non indugia però sulla fedeltà ai fatti, su episodi presenta-ti in una progressione logico- temporale. La narrazione di Grimaldi interpreta, esprime giudizi, simbolizza, divaga in attimi di perdizione mistica vissuti a livello personale.
Il significato in Grimaldi non è mai monodimensionale e perfino ciò che sembra indubbio nascon-de sorprese che si dischiudono solo ad uno sguardo attento, che in particolare nella pala dedicata a San Camillo può assaporare il turbamento causato dalle minuscole presenze quasi diaboliche che invadono capelli, mani e altri elementi della composizione. Si vedano i dettagli nell’acconciatura della donna che beve dalla coppa la quale sembra ignara del fatto che fra i suoi riccioli si nascondono teste umane a colloquio, nel pizzo della manica dell’uomo in preghiera dove un volto sembra prendere corpo dalle pieghe in chiaroscuro o nel palmo volto al cielo della donna sottostante dal quale due occhi sembrano guardarci.
La chiesa
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Le pale
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Gli affreschi
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Le lunette
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